Precariato in Cina

di GioGo(3)

Agenzia interinale, lavoro in appalto, subappalto, temporaneo...

Nell’articolo precedente, ci eravamo lasciati su uno dei segreti del miracolo cinese, il lavoro e il suo orgoglio mitico. GioGo riporta qui un primo resoconto di un’inchiesta sul lavoro precario dei subalterni che il nostro Argo – il suo nome è volutamente storpiato per non procurargli guai – sta conducendo da qualche mese nella periferia di una megalopoli cinese. Nella prima parte si riassume la storia di un giovane operaio, Shuge, che cerca di farsi pagare il salario – anche il suo è un nome di fantasia, come lo sono quelli delle altre persone e delle aziende coinvolte. Il testo non ha bisogno di spiegazioni che “traducano” quest’aspetto della realtà cinese, perché il precariato, variamente inteso, non è l’eccezione ma la regola a tutte le latitudini. Con Argo, tuttavia, abbiamo convenuto di scrivere qualche riga introduttiva per definire meglio il contesto.

In Cina, durante il periodo socialista, solo un quinto della forza lavoro è garantita: dal 30% nel 1958 si passa al 22% nel 1978, e così resterà per tutti gli anni Ottanta. La causa della precarizzazione deriva dalla strategia di accumulazione e dominio del Partito che, a fronte di un’ideologia ufficiale che predica uguaglianza, divide la popolazione tramite la “residenza” (hukou) in urbana e rurale, svalutando il lavoro agricolo a favore dell’industrializzazione massiva, urbana. Anche in città gli operai non sono tutti uguali, solo quelli che lavorano per le unità di lavoro delle industrie di stato hanno tutte le garanzie (sanità, casa, pensione etc.). Si noterà che prima della fondazione della Repubblica Popolare, nel 1949, le differenze passavano per il genere, le abilità e le competenze acquisite, il luogo d’origine. Con il socialismo, invece, le divisioni passano attraverso l’appartenenza a un’unità di lavoro statale oppure collettiva, a un’industria centrale o periferica, alla residenza urbana o rurale, all’appartenenza o meno al Partito, a un lavoro urbano temporaneo o stabile. Non solo il socialismo non ha eliminato le differenze, alla faccia della tanto sbandierata uguaglianza, ma esse sono state una delle basi fondanti le nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento del periodo successivo, quello del “socialismo di mercato” o delle “riforme e aperture”.

È sulla negazione assoluta della Rivoluzione culturale che nasce una nuova classe operaia, legata all’accumulazione flessibile che innerva il globo e che vede la Cina entrare nella catena globale come fabbrica del mondo. Con il subappalto e con l’urbanizzazione e l’espansione del settore dei servizi, il precariato è generato dal mercato e “regolato” dallo Stato. Durante il socialismo le lotte sono per il riconoscimento (essere uguali agli operai garantiti), adesso i conflitti ruotano attorno alle leggi sul lavoro. Il diritto sul lavoro, dalla metà degli anni Novanta fino al 2008 e 2013 segna un avanzamento dal punto di vista delle norme, ma nella realtà è la legge stessa, come si evince dal resoconto di Argo, che genera differenze e poi essa è utilizzata solo quando serve alle amministrazioni. Legge del potere piuttosto che potere della legge. Dal punto di vista ideologico, dagli anni Ottanta fino a pochi anni fa la crescita, lo sviluppo sono l’unico criterio da seguire. La vulgata è quella fornita dalla teoria dello sgocciolamento, trickle down in inglese ma meglio traducibile con le briciole sulla tavola dei ricchi: il mio sviluppo piano piano creerà le condizioni per il tuo. Intanto però, tu taci e produci, e sii flessibile nel farti sfruttare.

Proprio il paradossale aumento della precarietà e la contemporanea invisibilità della subalternità spiegano i cambiamenti degli ultimi dieci anni. Con il dodicesimo piano quinquennale (2011-2015) si stabilisce la “nuova normalità” (xin changtai) in campo economico: la crescita non sarà più a due cifre. Con l’ascesa di Xi Jinping al potere la nuova normalità si fa interamente politica, la crescita rallenta e i diritti sociali e del lavoro si restringono. Lo sviluppo ha mostrato chiaramente come esso faccia bellamente a meno del progresso. L’ideologia ufficiale batte sullo spirito imprenditoriale piuttosto che sul lavoro, ognuno sia imprenditore di sé stesso, sia creativo se ha capitale culturale e sociale, sia flessibile e organico ai nuovi lavori che le piattaforme offrono, cioè l’economia dei lavoretti. I subalterni scompaiono, coperti dai peana alle magnifiche sorti e progressive della patria, cioè del Partito.

Ormai un decennio fa si teorizzava che la seconda generazione dei lavoratori migranti avrebbe sviluppato la coscienza di classe e sarebbe stata capace di divenire un soggetto politico e di trasformazione. Il tempo non è stato galantuomo. Atomizzazione e acquiescenza sembrano essere più evidenti fra i subalterni, sia per la stretta del potere su ogni forma di dissenso, sia perché il precariato non si dimostra essere una classe pericolosa, al contrario, esso sfida l’idea stessa di classe quando limitiamo la visuale al solo campo della produzione. Ma per parlare della riproduzione sociale e della sua crisi, aspettiamo che l’inchiesta di Argo prosegua, che ci parli dell’abitare, dell’educazione, della sanità, della famiglia, del genere, dell’ambiente e della cura.

Restando all’ambito del lavoro, il quarto punto con cui Argo conclude le sue prime riflessioni non è forse all’altezza dei problemi che affronta, ma è quanto l’inchiesta sul campo permette di fare, non basandosi sulle ideologie vuote che utilizzano i subalterni come oggetti utili a comporre discorsi che non hanno presa sul reale, siano essi rivoluzionari o nazionalisti poco importa.

Un’esperienza e una riflessione dal basso

di Argo

Seguire per sempre il Partito. Ereditare e tramandare i geni rossi. Tutte le energie a inseguire il sogno.

Prima Parte

Oggi, 9 dicembre 2020, Shuge mai avrebbe pensato che il suo unico “tesoro”, un iPhone 11, sarebbe stato la causa di una sequela di fastidi.

Da metà novembre, Shuge s’impiega come lavoratore temporaneo in una famosa fabbrica cinese di cosmetici, situata in un angoletto appartato di un’animata metropoli, dove si concentrano una trentina abbondante di agenzie di lavoro interinale e di collocamento; se quando sei lì mentre cammini ti guardi attorno, non riesci proprio a figurarti che quella gente che vedi faccia parte della grande, famosa metropoli internazionale. Qui ci trovi essenzialmente due tipi umani, forza lavoro e disoccupati a caccia di lavoro, mentre i palazzi degli uffici, lo sfarzo, i simboli di civiltà e progresso sembrano miraggi, ce li hai sempre sotto gli occhi, ma è come se non esistessero.

Shuge un lavoro di cui andare fiero ce l’aveva, era aiuto cuoco dello chef di un ristorante all’aeroporto, ma poi per la pandemia il cuoco straniero non è più potuto rientrare in Cina, e per questo, per come l’ha capita Shuge, lui ha perso il posto. In seguito, Shuge s’è trasferito dalla stanza in affitto della casa accanto all’aeroporto in questa di qui, dove ha continuato la sua carriera di lavoratore temporaneo per un anno intero[1].

Ha lavorato da precario per un mese, passando da “giornaliero” a “settimanale” e ci si è pagato le spese personali. Shuge non è uno che s’abbatte, io ci ho lavorato con lui, è volonteroso, per giunta s’è anche accollato il lavoro pesante mio, e nella famosa fabbrica di cosmetici di cui si diceva prima, che si vanta d’avere le catene di montaggio più veloci e i regolamenti più severi di tutta l’area, Shuge ci ha resistito per un mese, mentre quasi la metà di tutti gli avventizi scappano fin dal primo giorno.

Normalmente Shuge fa quello che gli pare, beve e scherza con gli amici, non ha passatempi costosi, solo, tiene moltissimo al suo iPhone11, l’ha comprato a giugno nel punto vendita principale della Apple, in centro, un atto che agli occhi degli intellettuali di sinistra rappresenta il dominio culturale che il capitalismo esercita sui subalterni, ma quello che non gli viene in mente, a parte questo, è che Shuge ci può ricavare un capitale simbolico che lo fa sentire forte[2].

Senonché, è stato proprio il telefonino a mettere Shuge nei guai. Il 9 dicembre, s’è alzato che già splendeva il sole e Shuge s’è innervosito, la sua giornata lavorativa comincia alle otto di mattina e finisce alle otto di sera, più ogni tanto gli straordinari, l’agenzia di collocamento pretende che lui lavori il mese intero, senza pause, solo così prende lo stipendio e il rimborso. Invece quel giorno Shuge ha aperto gli occhi che erano le dieci. La ragione è semplice: gli si era rotto il telefonino.

Il tempo è sembrato fermarsi, tutta la vita di Shuge è legata al telefonino, quando va al lavoro gli serve per timbrare il cartellino, a pranzo per mangiare a mensa gli serve il programmino (xiao chengxu)[3] dell’azienda, ha bisogno dell’indirizzario del telefonino se deve chiedere un permesso. Il danno al telefonino gli ha sconvolto il ritmo dell’esistenza, l’ha gettato nel panico, non poteva più fare niente, e così ha deciso di farlo riparare. Quel giorno Shuge non ha proprio potuto andare al lavoro.

Il giorno dopo, prima di rimettersi alla catena, Shuge s’accorge che è tutto cambiato. Il caposquadra ha la faccia storta, i colleghi lavorano a testa bassa, senza rivolgergli la parola. Shuge si mette la tuta e chiede al caposquadra che deve fare, ma quello gli abbaia contro: “Non c’è lavoro per te, tornatene in agenzia”. Qui con “agenzia” s’intende l’agenzia di collocamento, quella tramite la quale Shuge è entrato in fabbrica. Non potendo fare altro, Shuge va a cercare il caporeparto, il quadro più alto in grado che lui possa interpellare; spera, parlandogli francamente, di essere reintegrato. Ma il caporeparto non bada minimamente alla sua franchezza e gli ripete quello che gli ha detto il caposquadra: “Torna all’agenzia”. I capi lo strapazzano, il lavoro non glielo danno, a Shuge non resta che andarsene, tutto risentito.

Ho ricevuto il messaggio di Shuge proprio mentre stavo andando a lezione. Da un lato c’è il professore che declama instancabile le vuotaggini della filosofia cinese, dall’altro il messaggio vocale di Shuge messo per iscritto, io butto giù qualche riga, gli dico di aspettare che passi da lui, dobbiamo recuperare il salario che gli spetta. Prima d’entrare in fabbrica Shuge ha firmato un accordo con l’agenzia, secondo il quale gli spetta una paga oraria di 25 rmb [€ 3,2 ca] una volta che abbia lavorato per 30 giorni pieni, mentre in caso contrario si contrae a 18 rmb, una differenza quindi di 7 rmb all’ora; inoltre avendo lavorato per 7 giorni ha diritto a un rimborso di 300 rmb, nel suo caso di più, dato che ha lavorato un mese intero (letteralmente fanfei: “rimborso”)[4]. Secondo la regola non scritta del posto, se il lavoratore è cacciato dalla ditta, ha diritto in linea di principio al corrispondente della paga oraria massima, mentre le riduzioni s’applicano solo ai lavoratori che hanno dato le dimissioni. Così, pieni di fiducia, pretendiamo dall’agenzia e dalla ditta la paga di 25 rmb che spetta a Shuge. 

Di tutti gli spazi di sopravvivenza in cui i lavoratori si sono trovati ad agire, nessuno è più rigido di quello regolamentato in questa fase storica. L’allocazione della manodopera ha preso il posto dell’assunzione diretta ed è diventata il principale accesso della manodopera al lavoro. In questo regime, di solito, una grossa agenzia di collocamento riceve direttamente dalla ditta le quote da assumere e poi le suddivide fra le varie filiali, grandi e piccole. L’assunzione di Shuge è avvenuta lungo questo canale. Per prima cosa il padrone di un’agenzia ha inviato un messaggio a Shuge con l’offerta di lavoro della fabbrica, poi lui ha firmato un contratto di prestazione d’opera con la filiale e l’agenzia madre, mentre vari passaggi intermedi rendevano il rapporto d’assunzione fra le parti (capitale e lavoro) sempre più confuse. Un groviglio inestricabile, per cui abbiamo deciso di chiedere il salario dovuto innanzitutto all’agenzia al piano più basso della piramide.

Il direttore dell’agenzia ci riceve cordialmente, ma quando sente delle vicissitudini di Shuge appare un po’ in difficoltà. Si richiama all’agenzia di collocamento “a monte” e apprendiamo dalle sue labbra che la fabbrica aveva interpretato il comportamento di Shuge come un autolicenziamento, sicché il salario può essere calcolato solo a 18 rmb all’ora. Ci lascia poi a bocca aperta quando dichiara che i 300 rmb di rimborso sono soggetti a detrazioni, cosa che riteniamo inaccettabile. Il direttore fa una proposta, di andare in fabbrica a “ritirare i documenti”, per avere la registrazione del licenziamento di Shuge.

Assumendo un atteggiamento attendista, io e un altro collega facciamo dietrofront e l’accompagniamo in fabbrica, poi aspettiamo all’ingresso, un po’ in ansia, che Shuge torni coi documenti. Non sapevamo che il caposquadra, esperto di queste cose e che immaginava già che Shuge sarebbe venuto con questa intenzione, si era già rimangiato la le parole dette e ha preso invece a criticare Shuge per aver disertato per due giorni senza motivo (il 10 era il giorno che l’avevano cacciato), e senza dire una parola su quanto detto e fatto in precedenza, insinuava che Shuge l’avesse cacciato a voce il dirigente e che lui non avrebbe dovuto lasciare il posto per questo (questo punto verrà ripreso in seguito nel testo). Non potendo fare altro, Shuge torna con me all’agenzia; quando il direttore sente la storia, scuote la testa e dice: “Allora non c’è niente da fare”, poi aggiunge che, se Shuge farà confusione oppure andrà all’Ufficio del Lavoro, lui lo farà mettere sulla lista nera di tutte le agenzie, elencato fra i candidati “difficili” e gli renderà difficile la ricerca di un altro lavoro.

Quella sera, mi sono informato da un collega che studia diritto e da un amico che ha avuto la stessa esperienza. Il primo m’ha confermato la legittimità della richiesta di Shuge dal punto di vista legale, rilevando che il licenziamento volontario del lavoratore è certificato dal datore di lavoro, non dallo stesso lavoratore, l’altro m’ha consigliato di rivolgermi all’Ispettorato del Lavoro. La mattina dopo, tutto eccitato, ho detto a Shuge che per il salario forse c’era ancora speranza. Lui ci aveva già messo una pietra sopra, ma io ho insistito, l’ho trascinato fuori di casa e ci siamo incamminati a grandi passi sulla via del recupero dei soldi. Quest’anno Shuge ha 21 anni, è un giovanotto proveniente da un paese in un’altra regione, da cui se n’è andato per mettersi a lavorare prima della licenza elementare. Anche se con noi si sa esprimere, di fronte alla gente potente non gli viene facile spiegare quello che ha in testa, quando ha sentito al telefono le domande incalzanti e impazienti di quello dell’Ispettorato non è riuscito a spiegare bene l’accaduto. Così siamo tornati di persona sul luogo di lavoro per chiarirci a faccia a faccia. Ma dopo aver esposto la situazione in ufficio e dopo che io, sicuro di me, ho mostrato i documenti legali che avevo trovato due sere prima, quello dell’Ispettorato del Lavoro si limita a un paio di frasi di circostanza, dice che la legge non parla di lavoratori avventizi, che i rimborsi non sono protetti da alcuna legge, che la ditta che assume ha il potere di valutare se un licenziamento è stato “volontario” oppure “imposto”; in conclusione, non c’è materia per intentare una disputa.

L’atmosfera di accesa contrapposizione a poco a poco si dirada. Usciamo a testa bassa dall’ispettorato. Shuge si copre la faccia, è mezzo rattrappito, io fumo e sospiro. Tornati all’agenzia, domandiamo al direttore come avverrà il pagamento del salario, lui risponde che è compito della filiale, che il rimborso si prende lì, in quanto all’ammontare, se ci saranno detrazioni sulla paga oraria di 18 rmb lui non lo può sapere. Ma ormai è tardi per arrivare al collocamento, Shuge si sente uno straccio, io non so che ribattere.

Il salario di Shuge fondamentalmente ammonta a 18 rmb all’ora, però il 15 dicembre potrà ritirare solo il salario di novembre, quello di dicembre l’avrebbe preso solo il 15 gennaio. Alla fabbrica di cosmetici Shuge ha lavorato in tutto solo 17 giorni, ogni giorno per 11 ore (12 ore sul posto di lavoro, meno un’ora per il pranzo), così ci ha rimesso 17×77=1309 rmb, per giunta 17 giorni in cui Shuge non è potuto neanche andare al gabinetto quando gli scappava. Alla fine del 2020, Shuge ha percepito 300 rmb tondi di rimborso.

In questi giorni, i colleghi e amici di Shuge hanno seguito su weixin l’andamento delle cose, altri colleghi l’hanno affiancato in certi momenti, così in un arduo cammino in pieno inverno ha trovato il calore dell’aiuto e dell’amicizia. Noi da scuola per andare da loro dobbiamo passare sotto un tunnel molto lungo; ogni volta che facevo la spola lì sotto, avevo le allucinazioni, mi sembrava di stare nel tunnel che si vede nel film “Fuochi d’artificio in pieno giorno” (2014)[5], usciamo dai campus, usciamo dai parchi tecnologici in uno sfavillio di luce e ci addentriamo nei “villaggi nella città”, nelle zone industriali, entriamo nelle agenzie di collocamento, lasciamo l’illusione ed entriamo nel “mondo reale.”  

Seconda parte

1. Lavoro precario

Gli studiosi del lavoro utilizzano il termine “precariato” per descrivere la nuova condizione della forza lavoro. È facile allora vedere come il lavoro e la vita di Shuge rientrino in questa condizione precaria. Il lascito della pandemia è stato perdere la relativa sicurezza che aveva prima e scivolare nel mondo dell’economia del lavoro a giornata. Il lavoro a breve termine con cambiamenti arbitrari di mansione pur nella stessa azienda hanno aumentato la debolezza di Shugen in qualità di lavoratore. Più di una volta mi ha detto che, infatti, nel ristorante dell’aeroporto dove ha lavorato, poteva acquisire in modo sistematico alcune competenze, ma la chiusura dettata dalla pandemia gli ha fatto perdere le speranze. Quest’anno Shuge ha fatto la selezione, il carico e lo scarico dei pacchi nella logistica, ha lavorato in una fabbrica di produzione di mascherine e di cosmetici, e durante questi lavori è stato spostato di mansione senza preavviso. Tutto ciò non solo non ha giovato alle sue competenze ma a causa della pandemia ha dovuto anche separarsi dai compagni di lavoro. La precarietà di Shuge si manifesta anche sul controllo che lo smartphone esercita su di lui, perché la raccolta di tutte le informazioni esterne e la produzione di informazioni personali passano tutte e solo attraverso lo smartphone. Anche se ormai ci prendiamo in giro da soli sul fatto che lo smartphone è diventato un nostro organo del corpo, è senza dubbio molto più decisivo per Shuge questo organo rispetto all’importanza che riveste per un colletto bianco o uno studente: non è che se noi perdiamo lo smartphone, con ciò perdiamo anche tutta la nostra vita passata. 

2. Capitale-lavoro, un rapporto diseguale

La triangolazione fra impresa, agenzia di lavoro e lavoratore produce l’ambiguità strutturale che intercorre fra lavoratore e datore di lavoro. Questo rapporto ambiguo fa sì che quando c’è una disputa, il lavoratore non ha modo di trovare la corretta controparte in grado di svolgere una mediazione, come abbiamo visto con gli esempi forniti sopra, l’azienda dice a Shuge di andare a cercare l’agenzia, ma questa dice a Shuge di rivolgersi direttamente all’azienda, si scaricano insomma le responsabilità vicendevolmente, e Shuge a sua volta non può distinguere chiaramente chi, in definitiva, deve farsene carico. Senza ombra di dubbio alcuno, nella gerarchia del mercato nazionale del lavoro Shuge è nella posizione di massima subalternità, che si tratti dell’azienda, dell’agenzia interinale o dell’Ispettorato del lavoro, nessuno vede realmente Shuge. Non si tratta dello stesso sfruttamento a cui sono sottoposti i colletti bianchi del 996 (lavorare dalle 9 di mattina alle nove di sera per 6 giorni a settimana), perché almeno loro possono utilizzare la rete e l’opinione pubblica come strumento di pressione sull’azienda, lui invece non ha alcun capitale (economico, sociale e culturale) che lo sostenga nella negoziazione. Conviene notare come l’agenzia di intermediazione ci ha detto che l’agenzia di collocamento ha una “lista nera” dei lavoratori “problematici” condivisa con tutte le altre agenzie che le stanno sotto, ma Shuge non ha modo alcuno di organizzarsi con gli altri lavoratori per lottare contro queste agenzie e le loro pratiche discriminatorie. Il rapporto completamente squilibrato fra capitale e lavoro si vede bene nella struttura del ” forte controllo, contratto debole”, infatti tramite l’unità di lavoro il controllo e il disciplinamento del lavoratore diventano sempre più stringenti, per il solo fatto che a Shuge si rompe il cellulare e non va al lavoro ecco che viene licenziato, perché la disciplina a cui il lavoratore è sottoposto è massima; il “contratto debole” significa che il capitale non vuole correre alcun rischio con la forza lavoro che controlla. Così, anche il fatto che l’agenzia interinale dice, ma solo a voce, che c’è un rimborso al salario (una volta che il lavoratore ha completato il periodo di lavoro senza andare via prima), indica il ” forte controllo, contratto debole” nel sistema del lavoro precario o flessibile, infatti basta che la ditta si rimangi la parola, e non riconosce più rimborso il dovuto. Ma se il lavoratore non completa il periodo di lavoro assegnato, è sicuro che il rimborso lo vede col cannocchiale. Tramite questo strumento del rimborso, la ditta aumenta la capacità di controllo e sfruttamento sul lavoratore.

3. Il diritto e l’assenza del controllo

Nella Legge sul contratto di lavoro, al 71 comma si legge: “nell’ambito del lavoro temporaneo, un delle due parti può avvisare l’altra parte in ogni momento dell’avvenuta fine del rapporto. Terminato il rapporto, l’unità di lavoro non paga una ricompensa economica.” Da questo punto di vista, gli ispettori del lavoro non è affatto vero che non abbiano modo di agire. Però, la retribuzione del lavoratore è formata dalla retribuzione oraria e dal rimborso, sono queste due insieme che il lavoratore spera di ottenere, questo è ciò che lui chiama salario, ed è anche la formula che usa l’agenzia interinale per attirare i lavoratori. Ma siccome il rimborso non è regolato dalla legge, l’unità di lavoro quando termina il rapporto non paga il rimborso e quindi il lavoratore corre il rischio di vedersi restringere la retribuzione reale. Il comma della Legge sul contratto di lavoro è senza dubbio un’arma efficace utile al padronato (o unità di lavoro, se vogliamo restare nella finzione del socialismo realizzato) per diminuire i costi e aumentare lo sfruttamento dei lavoratori precari. Dei 7 rmb che alla fine Shuge si è trovato a perdere all’ora, una parte è costituita dal rimborso. E poi, la legge stabilisce che per i lavoratori temporanei la paga deve essere emessa non oltre quindici giorni, invece a Shuge e a tutti gli altri precari che lavorano in quella zona (immaginiamo proprio che questo valga per tutta la Cina) la paga viene data come se fossero lavoratori fissi (mensile, quando va bene). L’Ispettorato del lavoro, che conosce bene queste situazioni, ovviamente non vede e non sente.

4. Aspettative per il futuro: la risposta dei precari e l’autorganizzazione

Il caposquadra della fabbrica di cosmetici parlando con Shuge, ha fornito involontariamente una via secondo me percorribile per i precari: restare sul posto di lavoro. Uno dei modi di lotta che in Corea del sud sono stati utilizzati dai lavoratori in appalto nelle università quando sono stati o licenziati o spostati di mansione è stato di restare sul proprio posto di lavoro e proseguire a lavorare. Nel caso di Shuge, se riuscisse ostinato e contrario a restare sul posto di lavoro, cosa potrebbe accadere? Potrebbe svilupparsi un miglioramento? Anche se al momento non c’è modo di saperlo, sono sicuro che tale azione avrebbe delle conseguenze positive per la mediazione e la possibile disputa futura, è in fondo quel che le parole del caposquadra intendevano, anche se in modo molto indiretto. Ma ben più importante è il fatto che un’azione del genere può rafforzare la formazione di un gruppo di lavoratori precari e marginali, perché stando alle condizioni politiche e sociali attuali ogni azione radicale è sia fuori legge sia impraticabile dal punto di vista delle forze del lavoro, però a fronte di un gruppo di solidali che condivide informazioni e motivazioni, penso che la ditta e le agenzie interinali non potranno, come ora, proseguire a maltrattare i precari senza pensarci sopra due volte.

NOTE


[1] Le case dove i subalterni prendono in affitto delle stanze sono quelle autocostruite, appartenevano cioè ai villaggi di campagna che poi, a seguito dell’espansione urbana, sono state inglobati nel tessuto urbano. I villaggi nella città hanno case a prezzo inferiore rispetto agli appartamenti urbani, ma i servizi sono più scarsi, le case più affollate, e manca ogni garanzia. I villaggi nella città sono il luogo principale dove i subalterni possono vivere.

[2] La sinistra cinese, nazionalista ed elitaria, utilizza a vuoto teorie e analisi marxiste e post-marxiste, ma poi vive comodamente nelle molte case di proprietà che accumula tra un libro, una lezione e un servizio al governo.

[3] In breve, si tratta di un’applicazione che non si scarica nello smartphone ma si usa direttamente su WeChat.

[4] La fabbrica e l’agenzia firmano un accordo, secondo cui l’agenzia fornisce la manodopera alla fabbrica e la fabbrica paga un costo fisso basato sulla quantità di forza lavoro fornita. Questo è lo stadio iniziale del fanfei. Quando l’agenzia cerca gente, può accantonare una parte della somma ricevuta dalla fabbrica e prometterla ai lavoratori, con lo stesso nome di fanfei.

[5] Black Coal è il titolo in inglese del film, frutto di una coproduzione sinohongkonghese e vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino,

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