di Carlo De Angelis

In questo anno 2^ dell’era pandemica, le occasioni di narrazione, restituzione della drammatica e terribile esperienza del Covid 19 non sono mancate. Ci sono stati, e ancora ci sono, processi di proliferazione narrativi, discorsivi, che mentre raccontano agiscono percorsi di catarsi utile ad interiorizzare o quanto meno capire l’insolito e inaspettato evento della pandemia. A fianco a questi processi, il virus ha provocato in tantissime realtà terrioriali, una gemmazione nuova di pratiche, di interventi concreti di mutualismo e di cooperazione. Per la prima volta, dopo tanto tempo e in un periodo in cui la clausura e l’isolamento sono state e sono ancora l’unica cura e difesa possibile, abbiamo assistito, provocato e partecipato, attraverso i nostri corpi, all’attivazione di percorsi assolutamente solidali e signitificamente estremi. Se da una parte ci si è dovuti coprire, chiudere, per evitare il contagio, dall’altra parte questi significati estremi hanno rivelato una necessità di sociale, di solidarietà che, iniziata spontaneamente in tante città, territori, ha provocato un contagio opposto al Covid 19, quello del mutuo aiuto, della vicinanza, della cooperatività.
Il contagio della Solidarietà lo ritrovo ben spiegato, esposto, rappresentato, nel lavoro del documentarista Maurizio “Gibo” Gibertini che con il suo ultimo lavoro Non ci vede nessuno, la società della cura, racconta, senza cadere nei luoghi comuni, con lucidità e senza omissioni o censure, ciò che nella vita quotidiana di tutti e in particolare di quella maggioranza di persone, precarie, povere, è realmente accaduto. Il film di “Gibo” si affida a una narrazione cruda, assolutamente realistica, che però mentre racconta è in grado di sollecitare, nello spettatore, riflessioni profonde su cosa vuol dire oggi, nella contemporaneità, risignificare il mutualismo, l’intervento sociale, la cooperazione.
Se vi prendete qualche minuto di tempo per navigare nelle pagine web dei progetti e reti solidali che si sono rafforzati o costituiti nel frangente del Covid, scoprirete che hanno forti caratteristiche comuni. Aprite la pagina di “Don’t Panic” di Bologna, di “Ricibo” di Genova, o Santa Fede Liberata di Napoli solo per citarne alcune. Hanno tutti a che fare con il mettere insieme esperienze, storie, biografie diverse per dare risposta immediata a bisogni urgenti e sempre più diffusi per la sopravvivenza delle persone. Ma tutti costruiscono strumenti, azioni, interventi per non limitare il proprio agire all’assistenza immediata.
C’è la voglia di costruire nuove relazioni con le persone che vivono particolari situazioni di bisogno, in grado di provocare un sussulto, di innestare un processo di consapevolezza, di emancipazione della persona: da “rifiuto/scarto sociale” a cittadino del mondo.
Ma non basta.
Per tutte queste esperienze è fondamentale riattivare le energie delle persone, è fondamentale ricostruire percorsi individuali di uscita dallo stato di necessità e di superamento della marginalità, ma tutto questo diventa ancora più significativo se sta dentro un quadro di costruzione di nuove relazioni di comunità.
Questo lo dicevano, con un linguaggio certo più radicale di quello utilizzato qui, le Black Panther Party e se qualcuno ha tempo e voglia di leggere Bobby Seale “Cogliere l’occasione” conoscerà come costruirono, proprio intorno alle azioni di solidarietà nei quartieri ghetto delle metropoli americane, un nuovo modello di comunità resistente.
Ecco il nuovo passaggio: costruire, nella dinamica della risposta ai bisogni essenziali, una trasformazione delle relazioni in una data comunità territoriale, accogliendo le diversità, sperimentando nuove forme di resistenza e di economia.
In questo procedere ad una ricostruzione di relazioni positive e propositive del territorio, attivando dei processi di nuova partecipazione e protagonismo del territorio, è possibile promuovere progettualità in grado di rispondere ai bisogni essenziali ma anche ai cambiamenti, alla costruzione di occasioni di reddito per tutti, alla modifica delle relazioni economiche sociali e ambientali.
Si sperimenta così un ulteriore elemento che è un po’ anche la sfida di Solid, la nuova rete romana di solidarietà. Come del resto nelle altre esperienze che brevemente sono state menzionate prima, Solid ha iniziato mettendo in rete le situazioni già esistenti, che per tutta la durata della prima fase dell’episodio pandemico e del Lockdown del Covid hanno dato risposta ai bisogni diffusi distribuendo pasti, generi di prima necessità, dotazioni di prevenzioni individuali, ma anche servizi di supporto di consulenza di accompagnamento, e poi servizi di cura, assistenza nei modi e forme più diverse. Solid è stato quindi inizialmente un incontro tra attivisti, volontari, operatori sociali per capire cosa fare insieme proiettandosi oltre gli specifici interventi.
Solid non è un tessuto omogeneo! È composto da storie, biografie, realtà, più o meno organizzate e diverse (Csoa Spartaco, Cinecittà Bene Comune, CNCA Lazio, coop Il Trattore, Unità di Strada Tiburtina, Spin Time, Csoa La Strada, Ass. La Tenda, CEMEA del Mezzogiorno, Ag Scuola Di Donato, Action, Ass. Argo, ReFoodGees, Comitato Quarticciolo, Ass. Kalma, GenerAzione, Ass. Nessuno Dorma e altri).
Solid è mossa dalla volontà di fare meglio quello che già facciamo e di mettere in rete le attività già presenti, per questo è stata elaborata una scheda di accoglienza e un’App specifica che permetteranno di unificare la raccolta dati, di scambiare informazioni, di costruire una rete solida di servizi dispiegati sul territorio. Sarà possibile così monitorare l’andamento dei bisogni e delle risposte e costruire nel frattempo un buono strumento per prevedere scenari futuri e progettazioni.
Ma il banco di prova più significativo per Solid è rappresentato dalla capacità di riattivare nuove risorse sui territori, di provocare un nuovo protagonismo in grado non solo di estendere i servizi di cura e aiuto ma di produrre progettualità territoriali che sappiano intercettare occasioni di sviluppo, di transizione ecologica, di rigenerazione urbana, costruendo concrete opportunità di reddito per i tanti che purtroppo vivono ai margini.
L’obiettivo è quello di avviare dei laboratori di progettazione partecipata a livello territoriale che sappiano essere credibili, con criteri di fattibilità concreta, che sappiamo insomma produrre processi di sviluppo, progettualità nel territorio facendole diventare anche delle vertenze territoriali o cittadine finalizzate a realizzare interventi concreti, utili e in grado di massimizzare l’impatto sociale sul territorio. Questo è anche la scommessa che allude ad un uso diverso dei fondi del Recovery Plan, nella direzione del cambiamento, della riduzione delle disuguaglianze e della riconversione ecologica. Invece abbiamo paura che il dibattito tutto interno al governo o al massimo ai dirigenti di partito sugli indirizzi di spesa del Ricovery Plan sia viziato da più di qualche paradigma ormai logoro.
In primo luogo, le ingenti risorse economiche non devono necessariamente confluire nella grande impresa come unici garanti della ripresa economica. Esistono altre forme di gestione dell’attività economica volta al rispetto dei diritti sociali, della riconversione ecologica, della distribuzione del reddito, della riduzione delle disuguaglianze. Se collegate in rete, le piccole e medie realtà – e tutti osannano le nuove tecnologie come capaci di accelerare i processi di integrazione facilitazione e comunicazione – potranno produrre insieme risultati positivi e quantitativamente rilevanti.
D’altra parte, le persone che hanno perso il lavoro, insieme a quelle del vasto mondo di poveri e vulnerabili, sono nella maggioranza dei casi con bassa istruzione e scarsa qualità professionale. Difficilmente queste persone potranno essere inserite nei nuovi lavori ad alta professionalità e innovazione tecnologica, come ci illudono alcuni politici economisti e mass media.
Avrebbe invece senso riflettere sul fatto che l’esplosione della pandemia ha messo in evidenza la sterminata necessità dei lavori di cura, cura delle persone ma anche cura del territorio. Questi due settori di intervento sono fondamentali, possono diventare i motori del cambiamento e rappresentare una valida opportunità di inclusione sociale e lavorativa delle persone povere e marginali ma anche di tanti giovani e meno giovani spesso con profili professionali elevati.
È altrettanto evidente che ci vorrà un investimento pubblico importante, perlomeno iniziale, per avviare in modo significativo questa trasformazione su vasta scala.
I lavori di cura sono parte di settori economici considerati meno allettanti dalle imprese classicamente profit, perché producono uno scarso o nullo profitto, secondo la retorica neoliberale. È il caso ad esempio di tutta la sanità territoriale, dei servizi ed interventi sociali, della manutenzione del verde, della manutenzione e tutela del territorio, e molto altro ancora inerente alle attività dell’economia circolare e dei lavori green. Tutte queste attività sono in realtà svolte in una logica di “funzione pubblica”, indipendentemente dal soggetto che le realizza, perché rispondono al bene comune, alla massimizzazione dell’impatto sociale e ambientale e non certo alla massimizzazione del profitto.
Ecco, per realizzare queste attività non servono le grandi imprese, servono le imprese sociali, in particolare le cooperative sociali, le organizzazioni del cosiddetto terzo settore e un nuovo mutualismo in grado di coinvolgere forme spontanee e forme organizzate di cooperazione nei territori.
Per uscire dal tunnel individualista e della crisi dell’intero modello di sviluppo, dobbiamo forse spingerci a ragionare e praticare insieme nuovi modelli politici e sociali.
Il paradigma del primato dell’economico a scapito del benessere delle persone, a scapito del bene del nostro Pianeta, ha generato un mondo di individui soli e in perenne competizione tra loro. Tocchiamo con mano una sostanziale riduzione di opportunità di lavoro, un ulteriore aumento delle disuguaglianze, un crescente disastro ambientale, la riduzione di Welfare e politiche sociali.
Partire dal Mutualismo significa riscoprire il valore della cooperazione in opposizione alla competizione sfrenata; il collettivo al posto dell’individualismo; la partecipazione per sconfiggere la delega; la comunità per superare la solitudine.
È possibile realizzare percorsi di sviluppo locale, ecosostenibili, capaci di interventi concreti ben oltre l’azione riparativa e assistenziale, per creare nuovi contesti, superare barriere e costruire nuove politiche pubbliche fondate sulla lotta alle disuguaglianze.
“Generare piuttosto che estrarre”.
I pilastri di nuovo mutualismo dovrebbero essere:
Il Cambiamento: facilitare, agevolare, sollecitare, promuovere politiche pubbliche per il cambiamento, uscendo dallo specifico, rompendo la propria casella, per ricostruire una visione unitaria multidisciplinare del cambiamento;
Il superamento delle disuguaglianze: realizzare interventi che riequilibrano le disparità sociali con azioni di promozione del protagonismo della persona superando assistenzialismo, interventi riparatori e prestazionistici;
La Partecipazione: applicare forme di democrazia organizzativa e diffusa, valorizzando sempre il protagonismo delle persone e delle collettività;
Investire in comunità, essere e fare territorio. Il Nuovo mutualismo deve essere consapevole che investire nei rapporti con la propria comunità di riferimento è strategico e irrinunciabile, quanto investire in beni strumentali per la propria attività;
Cooperazione sociale e lavori utili di comunità: capacità di integrare entro un contesto produttivo lavoratori con debolezze e fragilità. Oggi la nostra società ha un bisogno sempre maggiore di questa funzione e il mutualismo deve saper rispondere a questa necessità.
Ecco alcuni esempi di come questa capacità di fare rete, congiuntamente alla progettazione partecipata a livello territoriale, possa dare risposta innovativa alla cura delle persone e alla cura del territorio, casomai integrandole, per modificare il presente e ridare un futuro migliore alla nostra città.
1) Roma ha in dote una enorme quantità di immobili e aree pubbliche inutilizzate, beni pubblici in disuso, beni confiscati alla criminalità, una ricchezza possibile e immensa.
Il modo in cui saranno gestiti, utilizzati, finalizzati questi spazi segnerà il rilancio possibile di un ciclo di sviluppo della città.
Bisognerà riscrivere le norme di affidamento dei beni pubblici ridando centralità alle proposte dei laboratori di progettazione partecipata territoriale.
Esistono già norme e regolamenti per l’affidamento di beni pubblici, ma spesso sono limitati alla custodia e gestione del bene senza prevederne un uso produttivo. In alternativa ci sono le concessioni per gara pubblica, di cui conosciamo spesso gli esiti negativi.
Sarebbe necessario un ripensamento dei bandi di gara concorrenziali, riscrivendo un nuovo patto tra Istituzioni di prossimità, mutualismo e cooperazione in favore di processi di coprogettazione territoriale, basati sulla partecipazione e cooperazione degli attori locali. Nella maggioranza dei casi gli interventi sul patrimonio pubblico dovrebbero essere dati in gestione alle reti territoriali, ai laboratori territoriali, comprensive delle diverse espressioni del mutualismo locale. In questo modo sarà più agevole vincolare l’affidamento e l’uso dei beni pubblici al raggiungimento di obiettivi di massimizzazione dell’impatto sociale e ambientale.
Ridare centralità alla partecipazione e costruire interventi di rigenerazione urbana potrebbe essere l’occasione per diffondere i Poli civici (già previsti dalla Legge Regionale 11/2016 art 33 comma we e dal Piano sociale regionale del 2019, nel capitolo su “Mutualità territoriale per la resilienza sociale”, pag. 98 del testo).
I poli civici sono pensati come forme organizzative realizzate in collaborazione tra Istituzione locale e mutualismo (volontariato, associazionismo, centri sociali, cooperative sociali e altri).
Sono finalizzati a costruire un sistema integrato di interventi, non necessariamente in un unico luogo fisico, ma piuttosto in un’articolazione territoriale di attività, dentro una dimensione di una prima riconversione ecologica del lavoro sociale. A partire da questi riferimenti normativi si potrebbero realizzare alcune attività in luoghi fisici, anche tramite l’uso di beni pubblici, in rete fra loro.
Per esempio potrebbero essere attivate:
- la raccolta e distribuzione di generi di necessità/lotta alla povertà;
- gli sportelli sociali e accompagnamento ai servizi;
- la consulenza legale per le persone vulnerabili e svantaggiate;
- la costituzione di laboratori di progettazione partecipata territoriale;
- gli incubatori di imprese sociali;
- i co-working;
- i centri per l’educazione ambientale;
- la promozione e organizzazione degli orti sociali;
- l’organizzazione di piattaforme per la distribuzione dei prodotti bio-solidali
- gli eco-centri, spazi di raccolta, riuso e riciclo (pensiamo solo all’enorme necessità di computer per gli studenti piccoli e grandi che in questo momento non hanno gli strumenti tecnologici per seguire le lezioni scolastiche on line).
2) Non manca la disponibilità di terre pubbliche, attualmente sottoutilizzate, spesso abbandonate, su cui è possibile realizzare un Piano metropolitano di Agricoltura Sociale. Potrebbe essere l’occasione per valorizzare e recuperare terreni pubblici, contrastare eventuali speculazioni e cementificazioni, produrre centinaia di posti di lavoro e innalzare il livello di coesione sociale in un’ottica di sviluppo ecologicamente sostenibile. Un processo che potrebbe ridisegnare tutta la catena del food a Roma ed in tutta la Regione Lazio, ridando forza ad un consumo più responsabile e di qualità, compresa la riqualificazione delle mense scolastiche e del sistema dei mercati rionali. Abbiamo l’opportunità di coniugare l’avvio di concrete esperienze d’inserimento socio-lavorativo per persone in situazione di fragilità, con la realizzazione di servizi sociali, educativi, formativi insieme alla valorizzazione di produzioni agricole biologiche e a KM 0 ed infine costruire un sistema decentrato di riciclo dei rifiuti organici in grado di produrre compost, cippato, pellet.
Ma in realtà si potrebbe fare anche molto altro se pensiamo alla possibilità di allestire nelle tante strutture rurali abbandonate, dentro e fuori Roma, un sistema alternativo di accoglienza e di turismo sociale e responsabile.
Dai dati elaborati da Roma Agricola 2020 risultano di proprietà comunale, le seguenti aree: 459 ha, derivanti dalle compensazioni (comprendono Borghetto San Carlo, Tor Marancia, Trullo, ecc.); 439 ha, classificati come tenute agricole/terreni a uso agricolo, 188 appezzamenti.
A queste proprietà si devono sommare i terreni delle aziende agricole comunali, Tor San Giovanni – 450 ha, Tenuta del Cavaliere -140 ha, Castel di Guido -2.400 ha.
Inoltre, ci sono 2.367 ha, di proprietà di enti locali classificati come “Tenute” e che sono: Caffarella, Malnome, Cecanibbio, Malagrotta, Palidoro, Casal del Marmo. Poi bisogna aggiungere le altre terre pubbliche non ancora censite, tra cui quelle confiscate alle organizzazioni criminali, e le terre di privati abbandonate da anni, da sottrarre a future speculazioni edilizie.
3) Vogliamo credere che questa crisi sia una fase di transizione in cui c’è lo spazio di un Rilancio e del Cambiamento possibile.
La pandemia ci ha ricordato che siamo in grado di rimodularci e che il Mutualismo e la Cooperazione sono un modello di “funzione pubblica” in grado di dialogare con gli enti pubblici, con le altre componenti sociali e con la comunità locale e che nella fase dell’emergenza da COVID 19, quindi ancora oggi, stanno dimostrando di essere in grado di rispondere ancora e nonostante tutto ai diversi livelli di bisogni e progettualità.
Certo non ci sfugge che la possibilità di inoltrarci positivamente in questo percorso risiede anche nel ristabilire, una volta per tutte, le risorse per l’effettiva esigibilità dei diritti sociali.
Diventa fondamentale il riconoscimento dei Livelli essenziali di assistenza sociale e la riattivazione dei piani di zona sociali, previsti dalla legge nazionale 328, che sono le precondizioni per l’affermazione di un sistema stabile di interventi sociali, superando definitivamente la precarietà e l’insufficienza degli interventi attuali.
Bisognerebbe superare i limiti dell’intervento sociale rivolto esclusivamente a specifiche categorie (anziani, disabili, minori), caratterizzato da servizi socioassistenziali individuali e con l’uso diffuso e sconsiderato di voucher.
Piuttosto andrebbe promosso un lavoro sociale rivolto alla pluralità di persone in condizione di disagio e vulnerabilità, radicato nel territorio, con la prevalenza di interventi collettivi, in contesti normali, e con l’aspirazione a far crescere le attività di inserimento socio-lavorativo, spostando gradualmente la spesa dall’area prettamente assistenziale a quella di promozione ed emancipazione.
In questa stessa direzione crediamo sia possibile costruire un nuovo Piano straordinario del sociale, calibrato su interventi territoriali.
Un sistema coordinato, anche con le risorse del “reddito di cittadinanza” (nelle sue varie tipologie), che sia in grado di prendere in carico le persone vulnerabili e fragili, secondo un piano personalizzato e il modello del “budget di salute”, con la realizzazione di “Patti per l’Inclusione sociale”, oltre l’assistenzialismo, coinvolgendo i protagonisti del mutualismo territoriale, le associazioni e le cooperative. Sostenendo la realizzazione degli interventi descritti prima, di rigenerazione urbana e di agricoltura sociale, per intenderci.
4) Nell’ultimo periodo diversi studi e ricerche hanno rimesso al centro dell’attenzione e dell’azione pubblica le condizioni delle periferie romane. Queste riflessioni ci aiutano a dire che anche solo l’attuale distribuzione delle risorse per i diversi municipi non risponde ai criteri di eguaglianza. Riteniamo che alcuni Municipi, per configurazione, ampiezza di territorio, numero di abitanti, presenza di servizi di base, composizione sociale, sistema insufficiente della mobilità, debbano essere sostenuti con risorse aggiuntive per garantire una parità di trattamento e opportunità con gli altri municipi.
C’è quindi una battaglia da fare sulle risorse necessarie ma anche sulla scelta dell’allocazione delle risorse stesse. Pensiamo che sia arrivato il momento di costruire un Programma Operativo di Mediazione Socialea partire dai territori più svantaggiati della città. L’esperienza romana di Mediazione Sociale, nata nel 1999, fu inizialmente finanziata dall’Assessorato alle Politiche Sociali e promossa dall’Ufficio Roma Sicura, dapprima coinvolse i territori di Sperlonga (XX Municipio), Ponte di Nona (VIII), Quartaccio (XIX) poi San Basilio, il Trullo e altri. Dal 2008 in poi furono ridotti i finanziamenti e gradualmente chiusi i progetti (2013). Ma in un modo del tutto volontario continuano in tutta la città esperienze che andrebbero riconosciute, rifinanziate, rafforzate per determinare i livelli accettabili di coesione sociale nella nostra città. La Mediazione Sociale andrebbe riattivata con risorse adeguate e con l’obiettivo di innescare interventi di promozione della convivenza e della coesione sociale, della prevenzione e gestione dei conflitti individuali e sociali, come previsto dall’art. 8 della Legge Regionale 11/2016.
Bisognerebbe ripartire dalla riapertura del sistema integrato, con diffusione municipale, dei servizi bassa soglia e di contrasto alle dipendenze, purtroppo completamente azzerato a partire dalla Giunta Alemanno e non più finanziato.
Sarebbe quindi opportuno un programma con l’obiettivo di stimolare le risorse e le potenzialità inespresse dei cittadini e promuovere il protagonismo delle persone.
Bisognerebbe favorire la creazione di relazioni significative e collaborative con l’attivazione di percorsi di socializzazione e di empowerment comunitario, per migliorare, attraverso la costituzione di un coordinamento o rete, la comunicazione tra le realtà locali, favorire la reciproca conoscenza e collaborazione. Infine, sarebbe opportuno proporre attività di animazione sociale e organizzare eventi locali, compresa la realizzazione di percorsi di progettazione partecipata. In queste progettualità dovrebbero essere realizzate le attività di bassa soglia, delle unità di strada, delle azioni di animazione sociale e dei laboratori multidisciplinari nelle scuole e nel territorio.
È evidente che la concreta cantierabilità delle misure esposte è ancorata alla individuazione delle risorse economiche necessarie per realizzarle, ma appare strategica la necessità di modificare sostanzialmente la cultura dell’apparato pubblico. Senza una nuova consapevolezza dei funzionari della PA, degli enti di prossimità, della centralità della coprogettazione e della coprogrammazione, sarà impensabile trasformare e migliorare gli assetti.
D’altra parte, tutta questa programmazione di nuovi interventi sociali presuppone la formazione di numerosi operatori/educatori di comunità territoriale, dei veri e propri animatori del territorio che siano in grado di ascoltare i bisogni dei territori, costruire reti, facilitare la realizzazione di progetti/iniziative, ma anche ricercare nuove risorse.
Questa esperienza diffusa di nuovo mutualismo forse rappresenta la leva, la scintilla di un nuovo protagonismo che può portare nuova linfa vitale, ridando passione e conquistando nuovi volti al cambiamento.
Forse a piccoli passi si stanno gettando radici forti per il dispiegarsi di una nuova società o comunque nuove forme di conflitto e radicalità.